Fashion panorama. The italian new wave
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Fashion Panorama – The Italian New Wave è una mostra itinerante che si propone di raccontare la moda italiana contemporanea attraverso la visione di 10 brand, scelti per l’unicità del loro sguardo e approccio creativo.

In un mondo in cui è sempre più difficile trovare dei racconti collettivi condivisi, la moda sta emergendo sempre di più come strumento primario di costruzione dell’identità. È un fenomeno che in Italia prende forma in maniera particolarmente significativa per il peso culturale che la moda stessa riveste nel tessuto del paese.I brand selezionati, reinterpretando la tradizione artigianale in modo inedito, adottando linguaggi e modalità produttive innovativi, plasmano non solo una nuova idea di comunità, ma di italianità. La mostra vuole quindi portarci dietro le quinte del loro personalissimo universo, per capire il percorso che li ha portati ad esprimersi attraverso il linguaggio della moda e, nel farlo, raccontare l’Italia di oggi.

Concept

di Emanuele Coccia

La moda, così come la conosciamo non è sempre esistita. È una creazione recente ed è nata per esigenze che hanno in realtà poco a che fa- re con la storia del costume. Il sistema della moda, insomma, non è la versione contemporanea della storia del costume. È nato, al contrario, per strappare il commercio quotidiano con i vestiti dalle cause che ne avevano determinato la forma.

Per secoli i vestiti sono stati strumenti di produzione di un ordine sociale prestabilito: doveva- no permettere a ciascuno di dichiarare la propria appartenenza e la propria fedeltà al gruppo sociale che lo aveva partorito. Gli abiti dovevano distinguere gli uni dagli altri e soprattutto l’individuo da se stesso. Proprio per questo le apparenze vestimentarie erano l’oggetto di una minuziosa legislazione che definiva i colori, le stoffe, le forme che a ciascuna e ciascuno era lecito portare. Le cose sono cambiate -e l’abito è diventato forma della moda- solo quando, all’inizio del secolo scorso, le avan- guardie artistiche in Europa e negli Stati Uniti hanno proclamato che il fine di tutte le arti era quella di produrre una coincidenza tra l’arte e la vita. L’abito era il candidato perfetto per pro- durre e verificare questa equivalenza. Il vestito è l’artefatto più universale che esista nelle no- stre società: tutte e tutti ne facciamo uso, indif- ferentemente dall’età, dal genere, dall’identità sociale, dal censo, dalla religione, dalla cultura e dalla geografia. Tutte e tutti ci vestiamo e lo facciamo tutti i giorni. L’abito accompagna e scolpisce il nostro corpo tutto il giorno: non è scalfito dal tempo, è al contrario lui ha ritmare il tempo, a diversificare l’importanza e il significato dei diversi momenti di cui si compone la nostra giornata. Ed è stata proprio questa uni- versalità a fare degli abiti il cavallo di Troia che avrebbe permesso all’arte di entrare nelle no- stre vite, o meglio, di diventare la seconda pelle dei nostri corpi. Il sogno delle avanguardie è di- ventato così lavoro domestico e quotidiano: grazie alla moda, la nostra identità è oggetto di manipolazione artistica, ovvero qualcosa che possiamo trasformare seguendo logiche pura- mente arbitrarie. Piuttosto che ricondurre individui ed esistenze ad ordini prestabiliti, ora gli abiti trasformano i corpi in blocchi di argilla costantemente a contatto con le nostre mani e sensibili ai minimi movimenti della nostra immaginazione.

Basterebbe questo per comprendere quanto la moda, più di qualsiasi altra disciplina artistica, contribuisca a dare forma alla vita di un paese. La pittura, la letteratura, il cinema, il design permettono di rappresentare a cielo aperto i sogni, le opinioni, le forze che animano i corpi: la moda fa dei sogni e delle idee la carne e la pelle di quegli stessi corpi. Nel gesto attraverso cui si provano a disegnare le silhouette di giacche, gonne e pantaloni, di dar loro colore e consistenze diverse, mente e anatomia, colore e respiro sembrano confondersi. La moda obbliga ogni individuo ad essere simultaneamente Viktor Frankenstein e il suo mostro. Obbliga ogni individuo e soprattutto ogni generazione a reinventare tutto. Disegnare abiti è come ritrovarsi dentro una sala operatoria per ricucire e rammendare la propria vita ma avere come unico tessuto, scampoli confusi strappati ai propri sogni.

Questa mostra prova a raccontare come una nuova generazione di artisti ha trasformato il paese in un’immensa sala operatoria e hanno trasfigurato per sempre i volti di tutte e tutti noi. La scelta non è affatto casuale. Da una parte è stato proprio un designer italiano, Alessandro Michele ad aver fatto della rivendicazione di questa potenza demiurgica il nuovo segno del- la moda e del made in Italy. Dall’altra, negli ulti- mi anni nessun altro paese ha subito una trasformazione demografica e culturale pari all’Italia: l’arrivo di nuovi volti, non necessaria- mente legati a un passato coloniale ha regala- to al paese una infinità di passati diversi, di storie da raccontare e da tradurre e ha costret- to le nuove generazioni a immaginare il proprio futuro senza potersi necessariamente appog- giare a un passato reale. L’esempio delle generazioni passate dei grandi stilisti (da Gianni Versace a Riccardo Tisci, da Valentino Garavani a Maria Grazia Chiuri, da Armani a Miuccia Prada) ha dovuto essere affiancato da immaginari e patrimoni di natura totalmente diversa. 

Per questo, questa mostra non si limita a rac- contare solo il futuro della moda italiana, ma prova a suggerire e a raccontare le forme at- traverso cui la moda sta immaginando un futu- ro mescolando i passati più diversi e soprattutto mescolando il passato ai fili ancora incantati di un futuro che è stato copiato diret- tamente da sogni e premonizioni.

Non c’è un’unica ricetta. Qualche volta, queste operazioni alchemiche prendono ad oggetto proprio il passato stesso. Nei gioielli di Panconesi, l’archeologia della cultura materiale si rovescia nella divinazione di futuri anteriori alternativi. Altre volte il lavoro d’archivio serve a confondere passato e sogno, come nel caso di SSHEENA che riesce a fondere in un unica persona Greta Garbo e Sid Vicious e a trasformare il punk in una forma di eleganza sofisticata e cerebrale. Altre volta basta mescolare i codici e in questo modo giocare con gli stereotipi o distruggerli, come fa Lessico familiare o Maglia- no. Qualche volta è invece il recupero di tecniche antiche e desuete come il crochet e l’uncinetto che permette la trasfigurazione del presente, come nel lavoro di Marco Rambaldi. Altre volte il lavoro è più concettuale, come nel caso di Medea -la cui ricerca è molto legata all’arte contemporanea e sue figure chiave co- me Nan Goldin o Maurizio Cattelan - o nel caso di Cormio che si lascia ispirare invece da tradi- zioni più proprie al passato della haute couture.

In molti casi la magia avviene attraverso un’at- tenzione speciale ai materiali: ACT1 recupera broccati cinesi o tecniche tradizionali di lavorazione dei tappeti, Pasqualetti costruisce gioielli con legno, sugheri e fagioli. Claudia Gisele Nt- sama fa della canapa la materia che costringe il mondo ad arricciarsi e diventare vortice e schiuma della nostra pelle.

In ogni caso, però, una volta che questa opera- zione è compiuta, nulla è più come prima. C’è una ragione materiale: ogni volta che facciamo o cambiamo abito chiediamo a una porzione di mondo estranea -e poco importa che si tratti di cotone o canapa, lana o cuoio- di diventare non solo pelle ma anche e soprattutto volto. Un abito è questa strana estensione non anatomica della nostra coscienza che pretende che una materia qualunque sia più necessaria per dire io di quanto lo sia il resto del nostro corpo. Una scarpa, una cravatta, un abito in taffetà di- ventano sostegni più importanti della nostra personalità di quanto lo siano i polmoni. Come a dire che dobbiamo confonderci con la Terra per poterci ritrovare. L’io è solo la formula di un matrimonio tra noi e il pianeta.

Ma soprattutto quello che questi designer con- fezionano sono meno abiti che non modi d’es- sere futuri, forme di ‘io’ prêt-à-porter liberano il presente da ogni obbligo di fedeltà a un qua- lunque passato. Non si tratta infatti solo di colori e forme che appoggiamo sul nostro corpoper farlo apparire diversamente. Non si tratta di maschere. Gli abiti sono demoni: spiriti, perso- naggi, forme dell’io che non aspettano altro di entrare nei nostri corpi per farci vivere, per un attimo, il loro destino. Le mitologie più diverse parlano di demoni come delle forme di “io” che non corrispondono a nessuna natura: persona- lità capaci di penetrare i corpi, di influenzarne la loro identità, come se fossero dei caratteri alla ricerca di un vita in cui installarsi. Poco importa che si tratti di gonne o camicie, mono- spalla o cappelli, tutti gli abiti hanno un potere demonico, come se la magia di Cenerentola si fosse moltiplicata infinitamente e l’incantesimo di una scarpa si fosse trasferita a qualsiasi tessuto. Se non possiamo fare a meno di questi in- cantesimi è perché abbiamo bisogno del loro potere per capire chi siamo. Abbiamo bisogno di lasciar entrare questi personaggi nel nostro corpo e nella nostra vita, per far risalire in superficie parti della nostra personalità che non sapevamo di avere, forme dell’io dimenticate o mai davvero comprese. Ogni abito ci trasferisce, almeno per qualche ora in un destino che non sapremmo nemmeno immaginare senza di lui. È come se in realtà, piuttosto che permet- terci di esprimere e di ostentare qualcosa che siamo da sempre o sappiamo di essere, ogni camicia, ogni paio di scarpe, ogni maglione che acquistiamo servisse ad essere finalmente una parte di noi che riesce ad esprimersi solo grazie alla scoperta di quell’abito. I vestiti sono strumenti di divinazione psichica: il nostro io non può parlare e agire senza questo demone artificiale che lo sostiene e lo rende visibile, anche e soprattutto a noi stessi. E dinanzi ad essi siamo noi stessi che diventiamo attrici e attori alla ricerca di nuove sceneggiature.

In queste sale, troverete dieci designer che provano a praticare uno strano rituale spiritico: non smettono di evocare i demoni a cui siamo invitati ad arrenderci. Grazie a linee, forme e colori, stanno divinando e secernendo il futuro del paese. Che, almeno per un attimo, smette di essere il teatro di una guerra senza quartiere tra generazioni e minoranze, e diventa una for- ma paradossale ed effimera di paradiso terre- stre dove ogni istante delle nostre vite è più vero e più bello di tutti i nostri sogni.